viernes, 10 de junio de 2011

Si apre la discussione con: Alberto Maffi, Le "Leggi" e il diritto cretese


1. Scopo della mia relazione è avanzare l’ipotesi che alcune norme delle “Leggi” platoniche siano ispirate al diritto cretese e in particolare al “Codice” di Gortina (CdG). Prima di proporre questo confronto esporrò qualche considerazione sui rapporti fra le “Leggi” e il diritto positivo greco. Saunders ha elencato più di 120 leggi (identificate secondo lo schema: una frase condizionale in cui viene descritta un’offesa seguita dalla relativa pena). A sua volta Ruschenbusch ha compilato un vero e proprio Codice desumibile dalle “Leggi”, ma giungendo a un risultato numerico molto inferiore (68 leggi), perché ha tralasciato tutto ciò che egli considera palesemente (“offensichtlich”) platonico. Si ripropone così un problema che da sempre è all’attenzione dei commentatori delle “Leggi”: in che misura Platone riecheggia il diritto vigente nella Grecia del suo tempo?
2.  Dal bel contributo di M. Gagarin al convegno “La codification” riporto due affermazioni significative: 1) “Le droit fait partie du système d’éducation et la plupart de peines ne visent pas la punition, mais la correction et l’éducation” (p. 223); 2) « Le législateur platonicien part de la vertu et en déduit ses lois” (630-31 ; 705d-706a : p. 216) (p. 227). Dunque siamo nell’ambito di una legislazione ideale, se non utopica. Le “technicalities”, di cui Platone riconosce la necessità, saranno rimesse ai legislatori giovani (846 b-c + 956e s.): l’intento di Platone sembra quello di delineare un’impostazione di base, rispondente a un progetto filosofico, che dovrà poi trovare la sua piena attuazione sul piano tecnico-giuridico attraverso l’opera degli esperti che sapranno tradurre in norme vigenti (e immutabili) i principi di fondo.
Tuttavia la delimitazione dei compiti tra costituenti e legislatori ordinari conserva un ampio margine di ambiguità, perché Platone non si limita a fissare dei principi generali e a fare insomma della filosofia del diritto. Anzi, come ha sottolineato a suo tempo Eberhard Klingenberg, Platone vuole fare opera effettiva di legislatore, non di filosofo. Il compianto storico tedesco del diritto aggiungeva: che Platone ricalchi caso per caso leggi esistenti in una qualunque città greca è impossibile dimostrarlo; si può però indagare se ha regolato una determinata fattispecie in conformità con il diritto greco vigente (Klingenberg 1976, p. 2: “… ob er eine bestimmte Rechtsfigur in Űbereinstimmung mit dem griechischen Recht geregelt hat”). Io concordo con questo punto di vista: Platone scende spesso dal livello dei principi etico-politici a quello della normazione di fattispecie concrete e specifiche, dimostrando oltre tutto una conoscenza approfondita della terminologia giuridica. Addirittura mostra una notevole abilità nel bricolage legislativo: ad es. la disciplina dell’adozione viene piegata all’invio di spedizioni coloniali (e così pure l’epiclerato): qui il riferimento è quindi a istituti giuridici panellenici, svincolati dalla disciplina specifica che li caratterizza in una determinata legislazione.
3. A questo punto viene alla ribalta la questione delle fonti a cui Platone attinge la sua conoscenza del diritto greco del presente e del passato. La risposta a questa domanda implica prima di tutto la soluzione di un problema tecnico: attraverso quali canali poteva Platone conoscere le leggi vigenti nelle città greche? Per Atene sappiamo che i testi di leggi e decreti erano conservati nel Metroon (Boffo 2003, p. 35 s. e p. 48 s. per l’età ellenistica); ma non escluderei che circolassero raccolte private di leggi. Per Creta non abbiamo notizie di conservazione in archivi di copie delle leggi esposte al pubblico su pietra: in particolare ci si potrebbe chiedere quanto fosse noto fuori della città il c.d. Codice di Gortina, che, a mio parere, doveva essere considerato qualcosa di straordinario a Creta e fuori di Creta, così come lo consideriamo noi oggi. Ne circolavano forse delle copie manoscritte anche fuori di Creta?  E ancora: il Codice era ancora in vigore all’epoca di Platone? Domande a cui sarebbe importante poter rispondere: in ogni caso almeno una volta Platone cita un kretikos nomos (847 e, a proposito della ripartizione dei prodotti del suolo). Quanto a Sparta, vige addirittura il dogma dell’oralità delle leggi. Comunque Platone non rivela le fonti delle sue conoscenze giuridiche: in certo qual modo sono Megillo e Clinia a svolgere la funzione di esperti di diritto con riferimento alla legislazione dei rispettivi luoghi di origine.
4. Senza troppo soffermarsi su questi problemi, la communis opinio ritiene che, nei limiti in cui tiene conto della realtà legislativa dei suoi tempi, Platone si ispiri al diritto della sua città, Atene (v. Ruschenbusch p. 7: delle 68 leggi, 64 trovano corrispondenza nel diritto attico). Tuttavia ci sono elementi che inducono, se non a mettere in dubbio, per lo meno a sfumare questa affermazione. Il fatto che la legislazione di Magnesia scaturisca dal dialogo fra un Ateniese, uno Spartano e un Cretese non è forse da interpretare solo come un segnale di orientamento ideologico, ma potrebbe indicare che l’Ateniese intende concretamente tener conto delle norme di cui i suoi due interlocutori sono dati per conoscitori. D’altra parte alla fine del libro III (702c) viene detto esplicitamente che le leggi della nuova città dovranno essere scelte prima di tutto fra le leggi cretesi, integrate o anche eventualmente sostituite da leggi provenienti da oltremare; punto di vista accettato e ribadito da Platone in veste di Ateniese all’inizio del libro VI. Queste prese di posizione servono anche a giustificare il fatto che a Magnesia siano presenti istituzioni ignote ad Atene e vigenti invece sia a Sparta che a Creta (portatrici di adelfoi nomoi: 683a), come i sissizi. C’è inoltre da tener conto del fatto che molte leggi attiche possono risultare analoghe a leggi di altre città, anche se non coincidenti; e qualche indizio potrebbe rivelare che Platone non si attiene pedissequamente al tenore della norma attica, o comunque, nel formulare le sue norme mostra di conoscere soluzioni legislative diverse da quella ateniese (v. Van Effenterre 1947, p. 49: “il s’agira d’interpréter le sens de certaines divergences entre la théorie juridique de Platon et la costume athénienne et de se demander si l’origine n’en doit pas être cherchée dans l’influence des conceptions crétoises »).
5. I termini della questione restano quindi fluidi e il quadro molto più complesso di quanto non sembri a chi accetta in maniera acritica l’influsso ateniese: 1) per una parte non trascurabile degli ambiti che Platone interviene a regolare legislativamente non sappiamo se esistesse un’analoga normativa ad Atene, a Sparta e a Creta; ma questo non ci autorizza a dichiarare allora che tali norme sono una creazione platonica; 2) non possiamo nemmeno escludere che Platone si sia ispirato a norme vigenti in poleis o zone del mondo greco diverse da Sparta e da Creta (o addirittura estranee alla Grecia: nelle “Leggi” si fa riferimento anche a leggi di Egitto, Persia, Cartagine, Tracia, Scizia, India): l’assenza di una pubblicazione moderna delle leggi greche di V e IV secolo rende per il momento difficile una indagine comparata; 3) di conseguenza, dove le legislazioni vigenti sono mute, si aprono varie possibilità: 3a) Platone può aver mutuato norme vigenti ad Atene, a Sparta o a Creta, o anche in altre poleis, riproducendone invariata la sostanza; 3b) Platone può aver ripreso norme vigenti modificandone però parzialmente il tenore; 3c) Platone può aver creato nuove norme corrispondenti agli scopi ideali che nelle “Leggi” intende perseguire; 4) si verifica anche il caso in cui Platone non legifera su una materia regolata invece da una legge vigente in qualche città greca: ciò può dipendere dal fatto che Platone la considera una norma di rango inferiore, rimessa alla competenza dei futuri giovani legislatori, ma anche da una deliberata scelta ideologica[1]. In certi casi comunque il silenzio di Platone appare difficile da motivare: ad es., benché l’adulterio sia previsto in 784e e in 874c si parli di stupro (separando il caso generale dal caso della moglie: Saunders 1991, 246), colpisce particolarmente, come ha notato Gagarin, l’assenza di una disciplina generale dei reati sessuali, oggetto invece di una minuziosa regolamentazione nella II col. del Codice di Gortina.
II
6. Vengo ora al tema specifico della mia relazione, cioè al confronto fra le “Leggi” e la legislazione cretese[2]. Come si sa, Platone attribuisce alla legislazione cretese uno scopo predominante: assicurare l’efficienza militare. Infatti tutti i nomima cretesi, sia pubblici che privati, avrebbero come obiettivo la vittoria in guerra (625c-626b). Questa affermazione di Platone lascia piuttosto perplessi, soprattutto per quanto riguarda la legislazione in materia di diritto privato. Tuttavia a me non interessa qui approfondire questo tema, per il quale rinvio all’articolo in cui Paula Perlman ha avanzato l’ipotesi che Platone si ispirasse a una politeia cretese elaborata nell’ambito dell’Accademia (Perlman 2005). Mi interessa invece procedere a un confronto di contenuti normativi specifici, là dove ritengo che sia, non dico dimostrabile, ma almeno ipotizzabile, un’influenza o almeno un’ispirazione derivante da una norma positiva contenuta nelle iscrizioni cretesi (tenendo presente comunque l’avvertenza di Van Effenterre 1947, p. 56: “du seul fait qu’une loi crétoise correspond à une loi platonicienne il ne faudra pas déduire qu’elle en ait été forcement la source”).
Dato che, anche così impostato, il tema è comunque vasto, mi limiterò a un confronto con il contenuto del Codice.  Lascio da parte perciò altri possibili paralleli. Per es. quelli relativi alle “leggi agrarie”, i nomoi georgikoi, oggetto dell’ottima trattazione di Klingenberg, che non trovano posto nel testo del Codice. Oppure l’obbligo di contrarre matrimonio, che Van Effenterre, sulle tracce di Gernet e Becker, mette in relazione con le spartane dike agamiou e opsigamiou, a cui aggiunge la notizia di Strabo (X.4.20), secondo cui i giovani cretesi sono costretti a sposarsi al termine del loro percorso educativo, cioè quando escono dalle agelai.

7. Il confronto con il CdG si basa su due presupposti, al momento inverificabili: il primo, a cui ho già accennato, che un testo di legge così vistoso fosse noto anche al di fuori di Creta e anche a distanza di almeno un secolo dalla sua pubblicazione; il secondo, che le norme contenute nel CdG  fossero sostanzialmente in vigore anche nelle altre città cretesi, così da poterle assumere come kretikoi e non semplicemente come gortynioi nomoi. Incomincio da una norma che privilegia la filiazione legittima in una prospettiva eugenetica.
930 d: “Lorsqu’un enfant est né et qu’il ne subsiste aucun doute sur ceux qui l’ont fait, il peut rester à décider auquel des deux parents il doit appartenir. Si une esclave a eu commerce avec un esclave, un homme de condition libre ou un affranchi, s’est à son maître qu’appartiendra sans conteste l’enfant né de la femme esclave. Si c’est une femme de condition libre qui a eu commerce avec un esclave, c’est au maître qu’appartiendra l’enfant né. Si l’enfant est né du commerce d’un homme de condition libre avec sa propre esclave ou d’une femme de condition libre avec son propre esclave, et que le fait soit public, les femmes expédieront l’enfant de la femme de condition libre à l’étranger avec son père et les gardiens des lois expédieront l’enfant de l’homme de condition libre à l’étranger avec sa mère» (tr. Brisson-Pradeau). Possiamo così schematizzare le varie ipotesi considerate da Platone in questo passo.
a)    Schiava ha rapporti con schiavo/ libero/ manomesso à il figlio è del padrone della schiava
b)    Donna libera ha rapporti con uno schiavo à il figlio è del padrone dello schiavo
c)    Uomo libero ha rapporti con la propria schiava à la schiava verrà spedita all’estero con il figlio
d)    Donna libera ha rapporti con il proprio schiavo à lo schiavo verrà spedito all’estero con il figlio
Ora è interessante osservare che l’ipotesi b), contemplata nella norma platonica, corrisponde esattamente a una parte della norma del CdG che troviamo in col. VI 51-VII 10:
 “Se lo schiavo, recandosi presso la libera, si unisce a lei, i figli siano liberi. Se invece la libera (va) dallo schiavo, i figli siano schiavi. Se dalla stessa madre nascono figli schiavi e figli liberi, quando la madre muore, se ci sono beni, li abbiano i (figli) liberi. Se non ci siano (figli) liberi, gli aventi diritto ereditino”.
E’ dunque l’ipotesi di un figlio/a nato/a dal rapporto fra una donna libera e uno schiavo altrui. Soltanto che, mentre il CdG, per quanto riguarda lo status dei figli, ricollega conseguenze diverse al fatto che il rapporto sia patrilocale o matrilocale, Platone non fa differenza. Il figlio sarà comunque del padrone dello schiavo. Per valutare questo diverso trattamento occorre naturalmente chiedersi che tipo di rapporto sia quello da cui viene generato il figlio. Platone usa i verbi symmeixei e syngignetai, che sono verbi relativamente neutri, ma possono riferirsi al rapporto matrimoniale. In col. VII il CdG usa il verbo opuien, che di regola designa il rapporto matrimoniale. In ogni caso direi che né Platone né il CdG pensino a un rapporto matrimoniale o paramatrimoniale giuridicamente riconosciuto; però alludono inevitabilmente a un rapporto stabile e pubblicamente riconoscibile (perifanes: 930d). Diversa è la situazione quando il figlio nasca dal rapporto fra due schiavi. Il CdG conosce un matrimonio fra schiavi di padroni diversi, concluso con l’accordo dei padroni degli sposi. Non mi sembra che Platone contempli questa possibilità, che, a quanto mi risulta, è attestata in Grecia solo dal passo del CdG. Si può aggiungere che il CdG prevede solo implicitamente la prima ipotesi prospettata da Platone. In realtà Platone unifica due ipotesi che invece il CdG mantiene distinte. Leggiamo infatti nel CdG, col. IV 18-23:
 “Se una schiava non sposata rimane incinta e partorisce, il figlio/a sia del padrone del padre; se il padre non è vivo, sia dei padroni dei fratelli”.
Dunque qui non si dice chi sia il padre del neonato. Apparentemente non si tratta del frutto di un rapporto palese. Quindi il padre potrebbe essere uno schiavo del padrone della schiava o uno schiavo altrui o un uomo libero o perfino il padrone stesso della schiava. Ma la sorte del figlio nato dalla schiava è conforme a un criterio del tutto originale, che privilegia i legami di parentela all’interno della famiglia[3]. Possiamo ancora notare come CdG col. IV 18-23 regoli soltanto la sorte del figlio della schiava non sposata e non interferisca con le norme di col. II relative alla repressione della moicheia[4]. Per quanto riguarda l’ipotesi del figlio nato da uno schiavo e una libera (CdG col. VI 51-VII 10), lo schiavo (o meglio il suo padrone) sarebbe punibile in base al disposto di col. II 25-27; ma una simile conseguenza sembra in contrasto con l’idea che vi sia una relazione stabile (in quanto localizzabile presso lo schiavo o presso la donna). La norma platonica in materia di adulterio  (Lg. 784e) parla di rapporto con una donna “altrui”: sembrerebbe riferirsi quindi soltanto alla donna sposata[5].
8. Un secondo tema per cui vorrei proporre un’influenza cretese non riguarda in senso stretto un confronto tra norme, bensì il confronto fra la procedura di nomina dei giudici del tribunale ordinario platonico e l’identità dei giudici cretesi. La funzione giudicante nel CdG appare affidata a un giudice singolo denominato semplicemente dikastas e assistito normalmente da un cancelliere (mnamon). Chi sia questo dikastas e come venga investito della funzione di giudicare non viene detto. In dottrina sono state avanzate due opinioni contrastanti. Secondo l’autorevole opinione di H.J. Wolff[6] si trattava di un privato, presumibilmente scelto di comune accordo fra i litiganti: gioca qui probabilmente l’influenza del processo formulare romano di epoca tardo-repubblicana: il iudex unus, scelto dalle parti, era investito del potere di giudicare dal Pretore mediante il c.d. iussus iudicandi. A questa tesi si oppone da tempo G. Thür, attualmente uno dei massimi esponenti degli studi giusgrecistici e specialista in particolare della storia del processo greco. Secondo Thür il dikastas gortinio non può che essere identificato con un kosmos. Fra i vari argomenti a favore della sua opinione, Thür adduce da un lato la celebre iscrizione di Drero, che sancisce la sanzione del doppio (a favore della città?) delle condanne inflitte a carico del kosmos che abbia svolto attività giurisdizionale senza rispettare l’intervallo di tempo stabilito dalla legge per una eventuale rielezione[7]; e dall’altro una questione giuridicamente più sottile, cioè il brano della I col. del CdG che autorizza il giudice a infliggere una multa a colui che si impadronisce arbitrariamente (agei) la persona il cui status di libero o la cui proprietà in quanto schiavo è oggetto di contesa. Da quest’ultima norma Thür deduce che il giudice non può essere un privato cittadino, perché questi non avrebbe il potere di imperio di comminare una multa. Non mi soffermo a discutere la validità di questi argomenti e decido per ipotesi di considerarli persuasivi. Resta però un’obiezione fondamentale: perché il CdG, e la stessa obiezione vale anche per altre iscrizioni gortinie dove compare il dikastas, non lo chiama semplicemente kosmos? Forse Platone ci permette di proporre una soluzione nuova.
Come è noto, Platone prevede tre gradi di giudizio in materia civile: arbitrato (766e); tribunale della tribù, composto di giudici estratti a sorte (767a - 768b); infine tribunale di terza istanza (che sarà poi anche il tribunale che giudica in unica istanza in materia penale). Questo tribunale di terza istanza è composto da un magistrato per ogni magistratura, eletti da un corpo elettorale composto dall’insieme dei magistrati (767c-d). A questo punto sorge però un problema di interpretazione del testo platonico.
Riporto qui la traduzione di Brisson e Pradeau: “(767c) Absolument toutes les magistratures aussi bien celles dont le mandat est annuel que celles dont le mandat est plus long, se rassembleront la veille du jour où commence une nouvelle année avec le mois qui suit le solstice d’été, dans un seul sanctuaire, pour choisir après avoir prêté serment au dieu, comme en guise de prémices, (767d) un juge dans chaque magistrature : celui qui, dans chacune, sera considéré comme le meilleur et semblera pouvoir, pour l’année à venir, juger de la façon la meilleure et la plus pieuse les procès de ses concitoyens qui relèvent de sa compétence ». In questa descrizione ci sono elementi apparentemente contraddittori. Se i magistrati si riuniscono il giorno prima dell’inizio dell’anno, ciò farebbe pensare che si tratti dell’ultimo giorno di carica dei magistrati uscenti[8]. Tuttavia l’immagine della primizia farebbe pensare che si tratti dei magistrati entranti. A ciò si può replicare che il criterio di scelta fa riferimento al fatto che l’eletto appaia il migliore, il che dovrebbe logicamente risultare soltanto al termine del periodo di carica. E’ anche vero, però, che in 767e si dice che ascoltatori e spettatori dei processi dovranno essere non solo i Consiglieri ma anche gli altri magistrati che li hanno eletti: dunque i giudici sembrerebbero essere membri della magistratura entrante. D’altra parte potrebbe avere un certo peso il fatto che, se si trattasse dei magistrati entranti, colui che fosse stato eletto giudice avrebbe svolto una doppia funzione. Per di più l’eletto facente parte di una magistratura di durata pluriennale, come i nomophylakes che restano in carica 20 anni, avrebbe necessariamente svolto entrambe le funzioni. A me pare che nessuno di questi argomenti, ricavati dal testo platonico, sia determinante. D’altronde la maggior parte dei commentatori propende senza esitazioni per un’elezione nell’ambito dei magistrati uscenti[9], soprattutto in base all’analogia con la lettera VIII 356 e, dove si dice esplicitamente che si tratta di magistrati che hanno terminato il loro periodo di carica (e ciò benché l’autenticità della lettera sia tuttora discussa). D’altra parte colpisce il fatto che tanto Aristotele (Polit. 1272 a 35 ss.) quanto Eforo (in Strabo 10.4.22) scrivano che i membri della Boule cretese sono eletti fra i cosmi usciti di carica, anche se nelle “Leggi” Platone non applica questo principio alla sua Boule di 360 membri, in quanto essi vengono nominati attraverso un sistema misto di elezione e sorteggio.
9. A questo punto potremmo avanzare l’ipotesi che Platone abbia mutuato la sua modalità di scelta dei giudici non solo da elaborazioni teoriche precedenti (come quella di Ippodamò) ma dall’esperienza storica delle città cretesi: il dikastas che incontriamo nelle iscrizioni cretesi, e in particolare nel CdG, sarebbe dunque un ex-magistrato (non sappiamo come nominato), i cui poteri, con riferimento esclusivo alla sfera giurisdizionale, vengono prorogati nel tempo. Si giustificherebbe così il potere di comminare una multa, che risulta altrimenti difficile attribuire a un giudice privato, e allo stesso tempo si spiegherebbe perché il dikastas non è chiamato kosmos. Si può fra l’altro notare che la figura dell’ex-magistrato, l’apokosmos, ci è nota da un’iscrizione cretese (v. Van Effenterre 1985, 174). Certo, anche accettando questa congettura, resterebbero da chiarire alcuni punti essenziali: intanto il rapporto fra gli ex-kosmoi membri del Consiglio ed ex-kosmoi che svolgono la funzione di giudice; inoltre, se ritenessimo estensibile a Gortina quel che si ricava dall’iscrizione di Drero, resterebbe da spiegare come si ripartiscono le competenze giurisdizionali fra kosmoi in carica ed ex-kosmoi in funzione di giudici[10].

10. Un altro ambito in cui mi sembra plausibile avanzare l’ipotesi di un’influenza del CdG attiene alla disciplina dell’epikleros (ereditiera). Nel libro XI 924d ss. troviamo la disciplina platonica dell’epiclerato. Gli aventi diritto a sposare l’ereditiera sono i collaterali da parte del defunto con prevalenza dei discendenti in linea maschile su quelli in linea femminile. Immediatamente dopo troviamo la seguente disposizione τήν δέ τούτων γάμου χρόνου συμμετρίαν τε καὶ αμετρίαν ο δικαστής σκοπών κρινέτω, γυμνούς μὲν τοὺς άρρενας, γυμνάς δὲ ομφαλού μέχρι θεόμενος τη̃ς θηλείας. “Il giudice valuti giudicando in base a un’ispezione corporale se vi sia o non vi sia l’età reciprocamente necessaria per contrarre matrimonio, osservando nudi i maschi e nude fino all’ombelico le femmine”. Ora noi sappiamo che l’età per contrarre matrimonio è fissata dal legislatore platonico in una fascia d’età che oscilla fra i 25 e i 35 anni per i maschi e fra 16 e 20 anni per le femmine. Nel caso dell’ereditiera si direbbe però che l’età minima coincida con la pubertà effettivamente accertata dal giudice.
11. Se leggiamo il CdG vediamo che anche lì l’età minima per il matrimonio dell’ereditiera coincide con la pubertà, sia della donna sia dell’avente diritto a sposarla (ebion ebionsan: col. VII 37) (l’età della donna verrà poi convenzionalmente fissata a 12 anni con l’emendamento che chiude il testo del CdG: col. XII 17-19; la pubertà maschile non è invece collegata al raggiungimento di una determinata età, come avverrà invece a Roma, almeno secondo una corrente di giuristi). Tuttavia, in base a col. VII 35-47, all’avente diritto pubere viene concesso un termine per decidere se vuole sposare l’ereditiera, che si prolunga fino alla maggiore età (coincidente con il conseguimento della condizione di dromeus). All’avente diritto, divenuto dromeus, i parenti dell’ereditiera possono far imporre dal giudice un termine di due mesi per decidere se la vuole o non la vuole sposare.
Col. VII 40-47: “Se, essendo dromeus, l’avente diritto non vuole sposare lei, che è pubere e vuole sposarlo, i parenti dell’ereditiera ricorrano in giudizio; il giudice (dikastas) giudichi che la sposi entro due mesi”
Chi è il giudice a cui si riferisce questo passo del CdG? Potremmo chiederci se non si tratti di uno degli orpanodikastai menzionati in col. XII 7 e 11-12; in mancanza di indicazioni più precise non resta che identificarlo con il giudice competente per le questioni familiari.
12. Ritorniamo a Platone. Chi è il giudice che compare in 925a? Sembra che nessuno dei commentatori delle Leggi se lo sia chiesto. Potremmo identificarlo con uno dei 15 custodi più anziani delle leggi che, a gruppi di tre per anno, in base a 924c devono prendersi cura di tutto ciò che riguarda la tutela e gli orfani. Possiamo infatti supporre che, in questa veste, svolgano anche funzioni giudiziarie (in quest’ottica potremmo considerarli un equivalente dei misteriosi orpanodikastai del CdG, scorgendo anche qui un influsso cretese: ritornerò sotto su questa possibile analogia). Tuttavia appare alquanto singolare la menzione di un dikastes al singolare. Inoltre, così come ce la presenta Platone, la funzione che svolge non sembra propriamente una funzione giudiziaria. Quindi ci aspetteremmo di vederlo qualificato come nomophylax o come epimeletés (sul modello del nomophylax che svolge le funzioni di sovraintendente alla pubblica istruzione: epimeletes tes paideias: 765d e 808e-811d); tanto più che in 924c si affida ai 15 custodi la epimeleia degli orfani. Sorprendente mi sembra anche il fatto che il compito di accertare il raggiungimento della pubertà da parte della ereditiera non venga affidato da Platone a una delle donne definite κύριαι τὴς επιμέλειας τών γάμων  (794b). Nel CdG il raggiungimento dell’età pubere è dato in pratica per scontato, non forma oggetto di un accertamento del giudice. Questo può dipendere dal fatto che l’itinerario attraverso le diverse classi di età era scandito dalle istituzioni educative collettive. Ma ciò non risulta con certezza dal testo del CdG. Può darsi, come ho supposto altrove[11], che la terminologia apodromos/dromeus, che rinvia in quanto tale a un itinerario formativo collettivo basato sull’educazione fisica, fosse rimasta in vigore anche dopo la scomparsa di quelle istituzioni educative (che tuttavia gli scrittori di cose cretesi considerano ancora vigente anche dopo l’età del CdG). Nella Magnesia platonica l’istruzione è pubblica e obbligatoria ma non appare scandita da rigorosi passaggi di età. E’ logico quindi che l’accertamento della condizione di pubere debba essere accertata caso per caso. Tuttavia, lo ripeto, perché da un giudice? La mia risposta è che forse Platone si ispira a una situazione simile a quella che leggiamo nel passo sopra citato della col. VII del CdG. Platone, a differenza del CdG, non prevede esplicitamente un rifiuto o una rinuncia da parte del primo avente diritto a sposare l’ereditiera, ma ritengo che dia per scontata questa possibilità. L’esigenza di un accertamento potrebbe quindi derivare proprio dalla necessità di stabilire l’età dei due soggetti interessati nel caso in cui vi siano successivi aventi diritto a sposare l’ereditiera. In questo caso l’accertamento della raggiunta pubertà da parte dell’ereditiera e dell’avente diritto sarebbe anche in Platone la premessa perché venga fissato un termine all’avente diritto, riconosciuto pubere, affinché dichiari se vuole sposare l’ereditiera: potremmo così spingerci a scorgere un influsso diretto del CdG nell’intervento di questo misterioso dikastes, così inusuale nel contesto delle Leggi.
13. Ma non basta. Anche il seguito delle disposizioni platoniche contiene disposizioni analoghe a ciò che il CdG prevede in materia di ereditiera. Il CdG assicura una certa libertà di manovra all’ereditiera, ma la costringe comunque a seguire un percorso complicato per potersi (e doversi) finalmente sposare: 1) se nessuno degli aventi diritto è di suo gradimento; 2) qualora l’avente diritto (l’unico disponibile evidentemente) sia impubere o 3) non vi siano aventi diritto, l’ereditiera può sottrarsi all’obbligo endogamico e sposare quello che le aggrada e che la richieda in sposa fra i membri della tribù di appartenenza (col. VII 50 – VIII 20), o, come ultima ratio, un uomo qualificato solo negativamente come non appartenente alla famiglia o alla tribù. Platone se la sbriga più rapidamente: in assenza di aventi diritto appartenenti al gruppo familiare, l’ereditiera sposi il pretendente, caratterizzato solo negativamente come estraneo alla famiglia, che sia di gradimento suo e dei suoi tutori (925a). La stessa norma che consente all’ereditiera di sposare l’avente diritto trasferitosi in una colonia può essere interpretata alla luce della norma del CdG che consente all’ereditiera di non tener conto del collaterale che sia assente nel momento in cui, divenuta pubere, può (e deve) sposarsi (CdG VIII 36-40: “se l’avente diritto a sposare l’ereditiera sia lontano dal paese, e l’ereditiera sia pubere, si sposi con l’avente diritto così come è stabilito). Se vale l’analogia, in Lg. 925b-925c si presuppone che il syngenes, partito per la colonia, proprio perché assente non sia legittimato a far valere il suo diritto a sposare l’ereditiera a preferenza di collaterali di grado più lontano. Soltanto se non vi siano altri aventi diritto e se l’ereditiera acconsenta al matrimonio, potrà ritornare in patria e conseguire l’eredità. Se invece non fosse un syngenes, l’ereditiera, con l’accordo dei tutori, potrà proporgli il matrimonio solo se non vi siano collaterali in città, applicando così la regola generale relativa al matrimonio con estranei alla parentela di cui in 925a; il che fa pensare che l’ereditiera, mentre può rifiutare il matrimonio con un estraneo alla famiglia presente in città se non vi siano aventi diritto, non possa rifiutare il matrimonio con l’avente diritto di turno. L’impossibilità di sottrarsi al matrimonio con l’avente diritto appartenente alla famiglia rinvia al  principio vigente in diritto attico, meno liberale quindi nei confronti dell’ereditiera di quanto non sia il CdG.
14. Tuttavia occorre ricordare che Platone si scusa per ben due volte nei confronti dei cittadini di Magnesia per il fatto di dettare norme che impongono criteri vincolanti di scelta del coniuge: prima adducendo l’impossibilità per il legislatore di sostituirsi al padre dell’ereditiera nella scelta del miglior marito (924d-e), poi affermando con un certo fastidio che il legislatore, immerso negli affari pubblici, non ha tempo di occuparsi delle disgrazie private (925 e), ma comunque scusandosi con i cittadini (addirittura usa la parola syngnome). Su richiesta, forse non a caso proprio di Clinia, che interrompe il lungo monologo dell’Ateniese, la soluzione di queste difficoltà, proposta da Platone, è il ricorso ai custodi delle leggi in veste di arbitri (un’eco degli orpanodikastai del CdG?), o la proposta di una soluzione alternativa che implica una sentenza ordinaria da parte del tribunale ordinario di terza istanza. Il criterio in base a cui attuare questa scelta fra intervento arbitrale dei custodi e decisione del tribunale non è del tutto chiaro: non si capisce se si tratti di due soluzioni alternative fra le quali saranno chiamati a scegliere i giovani legislatori incaricati di dare veste definitiva al corpus delle leggi di Magnesia, oppure se Platone intenda mettere a disposizione delle parti interessate un duplice strumento di decisione dei casi controversi. Sviluppando questa seconda ipotesi, si potrebbe pensare che i custodi, in quanto arbitri, siano incaricati di trovare una soluzione equitativa (che quindi può anche derogare al rigore dei principi di legge, concessione abbastanza straordinaria, mi pare, nell’insieme delle “Leggi”), mentre il tribunale interverrà in sede di appello se una parte si riterrà insoddisfatta della sentenza arbitrale: in questo caso la legge sarà applicata rigorosamente perché, sembrerebbe di capire dalla motivazione platonica, l’insoddisfazione che spinge a ricorrere ai giudici pare dettata dall’avidità di denaro. Tuttavia mi pare che tutto il passo meriti un ulteriore approfondimento. In questa sede mi limito ad osservare che il legislatore gortinio appare molto più fiducioso nella capacità di regolare e guidare le scelte riguardanti la sorte dell’ereditiera. Mi domando se l’insofferenza verso una legislazione troppo minuziosa e la delega alla magistratura da parte di Platone non sia la conseguenza delle esperienze negative, che erano state fatte a Gortina nell’applicazione di quelle norme e di cui Platone potrebbe essere stato informato.
Se la mia ricostruzione dell’influsso del CdG in materia di filiazione e di disciplina dell’ereditiera è plausibile, ci troveremmo di fronte a un Platone profondo conoscitore del diritto greco vigente, di cui sa servirsi per conferire una veste giuridica adeguata ai principi da cui vuole che la sua città ideale sia retta.

























BIBLIOGRAFIA

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H.J. Wolff, Beiträge zur Rechtsgeschichte Altgriechenlands und des hellenistisch-römischen Ägyptens, Weimar 1961.














[1] Mi riferisco ad es. all’assenza di disciplina del prestito: 742c –divieto di deposito e di prestito di denaro. A nche l’eranos è sulla fiducia -v. Plato, Resp. 556b- ed è collegato all’assenza del commercio marittimo; 842c à pisteuein: 849e + 915 d-e; v. però 920d (Pringsheim, 131 n. 4, che tuttavia si riferisce a un contratto equivalente alla locatio operis)
[2] per un influsso specifico di Creta v. Partsch, Arch. f. Pap. 7, 1924, 270 e E.F. Bruck, Totenteil, 153
[3] V. Maffi 1997, § 103
[4] V. Maffi 1997, §§ 113-116
[5] Per il dibattito relativo alle donne interessate dalla repressione della moicheia v. ancora le relazioni di D. Cohen ed E. Cantarella in Symposion 1990
[6] Wolff 1961, p. 58
[7] Demargne-van Effenterre, BCH 61, 1937
[8] Kahrstedt, Untersuchungen zur Magistratur in Athen, Stuttgart 1936, p. 68-69: il primo giorno del mese ad Atene cambia l’arconte eponimo e così dispone Platone Lg. 767c 
[9] Gernet, p. CXXXIII non sembra rilevare il problema: “les membres seront désignés annuellement par l’assemblée des magistrats”. Morrow 1960 scrive (p. 217 n. 156) : « It might be asked why a dokimasia would be necessary in this case, since each of the persons elected will already be an officer and will have passed a dokimasia before entering upon his present office. But one of the persons elected may have done something during his term of office which was known perhaps only to one or two of the electing body… The second dokimasia would, then, be analogous to the euthyna which at Athens was required of a citizen before he could fill another office”. Brisson e Pradeau scrivono: “ce sont des magistrats déjà installés dans leur fonctions qui deviendront juges, voire des magistrats retraités” (vol. I, p. 452). Viene dato peso anche all’analogia con la proposta di Ippodamo in Arist. Pol. 1267 41-42
[10] Sul significato di dikazein nella documentazione greca arcaica e classica v. Maffi 2007
[11] Maffi 1997, § 77

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